Cos’è uno scienziato

Nella mia attività di “scienziato” (mi si passi il termine che solo in Italia e in pochissimi altri paesi è ammantato da una aureola quasi di sacralità) mi sono spesso domandato quali debbano essere le caratteristiche, le qualità che debbano caratterizzare questa figura. Innumerevoli sono le risposte a questa domanda; ma forse la più bella è quella data da Albert Einstein: “La capacità di stupirsi, di meravigliarsi di fronte alla natura; una caratteristica che lo accomuna all’artista, anch’egli impegnato nel gioco senza calcolo.” Gioco, divertimento, appagamento senza fine della curiosità. Queste ritengo siano le vere motivazioni che debbano spingere uno scienziato degno di questo nome. E, come asseriva Claude Lévi-Strauss: “Lo scienziato non è l’uomo che fornisce le vere risposte; è quello che pone le vere domande.” Va da sé che questa definizione rischia di tagliar fuori la stragrande maggioranza di coloro che oggi sono considerati “scienziati” trincerati dietro i loro esperimenti, i loro rigidi protocolli di laboratorio, impegnati – si direbbe – a far crescere una Scienza divenuta ormai un idolo. E questa considerazione di Eric Fromm ci introduce in quello che è oggi uno dei principali limiti della ricerca scientifica: l’esclusione di fatti che essa non riesce a spiegare alla luce delle sue attuali conoscenze. L’atteggiamento di liquidare con una scettica alzata di spalle fenomeni che non possono essere spiegati utilizzando le attuali conoscenze è una abitudine, nata sostanzialmente con l’Illuminismo, ma che persiste ancora oggi, molto più diffusa di quanto comunemente si pensi nel campo della ricerca scientifica. Il perché si spiega sostanzialmente con l’atteggiamento della stragrande maggioranza dei ricercatori, sempre a caccia di finanziamenti indispensabili per potere svolgere il loro lavoro, che per paura di restare emarginati preferiscono non immischiarsi con fenomeni rari, non comodamente riproducibili in laboratorio, o che addirittura osano dar credito a discipline e a credenze contro le quali la Scienza ha condotto nei secoli una aspra battaglia. Sempre più rari, quindi, gli scienziati eretici. Che osano, ad esempio, criticare la vivisezione animale o il dogma delle vaccinazioni. Ma cosa succede quando la scienza è la Medicina e lo scienziato è un medico? Comunemente si pensa che la Medicina sia accomunabile ad altre esperienze scientifiche nella sua parte di ricerca sperimentale perché è assoggettabile al metodo scientifico, ma, contemporaneamente, vi è la percezione che la variabilità biologica e l’impatto con il dinamismo inevitabile del malato obblighi ad abbandonare un atteggiamento scientifico nel momento in cui è tradotto in pratica clinica. O all’opposto, che la possibilità di estrapolarne elementi di novità e fattori di conoscenza debba implicare un atteggiamento distaccato e riduttivo, quasi che esistesse un medico che studia, diverso da un medico che cura; così la pratica medica, diagnostica e terapeutica, e la ricerca finiscono per separarsi in mondi incomunicabili, in competenze ed ambiti non sovrapponibili. Questo è uno dei principali rischi che corre la Medicina oggi. E mi piace pensare che la Medicina alla quale ho dedicato tutta la mia vita non sia solo una Scienza ma qualcosa di più. E mi piace qui attestarlo con una frase di Voltaire: “Coloro che si dedicano a risanare gli altri, usando insieme dell’abilità e della umanità, sono, in assoluto, i Grandi della Terra. Essi hanno addirittura qualcosa della divinità, poiché salvare e restituire alla vita è quasi altrettanto nobile quanto creare”.